Nome e Cognome=Carlo Molinari
Titolo=Voci da Galera
Classificazione=volontariato, sociale, carcere
Pubblico adulto?=adatto ad un pubblico dai 14 anni in sù
Opera=A.A.V.V.
a cura di Carlo Molinari
VOCI
DA GALERA
STRALCI EPISTOLARI (E NON) DI CARCERATI:
PER DAR VOCE A CHI NON CE L'HA
'Marca Aperta' Editrice
Carlo Molinari
VOCI DA GALERA
'MARCA APERTA' EDITRICE - MONTEBELLUNA (TV)
In copertina: 'Cirri azzurrissimi', fotografia elaborata al computer dall'Autore
Copyright by 'Marca Aperta' Editrice di Giuliana Merotto - Montebelluna (TV) 2004
Proprietà letteraria e artistica riservata
Riproduzione e traduzione anche parziali vietate
Finito di stampare nel mese di marzo 2004 presso la Tipografia Artegrafic di Castelfranco Veneto (TV)
Un ringraziamento profondo va anche ai tanti soci e simpatizzanti di AMI.CA. che hanno offerto generosamente il loro contributo per la realizzazione di questo libro: specialmente a Giuliana Merotto (Montebelluna, TV), ad Anna ed Elisa Meneghetti (Cornedo, VI), Paolo Cifariello (Piacenza), Paolo Zannoni (Santorso, VI), Samuela Rigon (Padova), Pierangelo Susana (Susegana, TV), Aurelio Burba (Monfalcone, GO), Anna Teresa Zearo (Roma) e a Maria Camarda (Piana degli Albanesi, PA).
Un grazie sincero anche alla Caritas della parrocchia 'Beata Vergine di Lourdes' di Conegliano (TV) per le stesse motivazioni.
Dedicato a tutti i detenuti
morti in carcere
'giustiziati' nel mondo
da Stati forcaioli,
o scomparsi in
'circostanze misteriose'.
PREFAZIONE
Gentile Lettore,
questo libro segna il mio esordio come editore.
Potevo iniziare con qualcosa di più leggero, le premesse c'erano tutte: ho un sacco di amici poeti, narratori, cantastorie, affabulatori... E invece no: mi è arrivato tra le mani per primo questo 'Voci da Galera' (mettiamo la G maiuscola che, secondo me, dà più enfasi al signifi-cato stesso? Idem per la copertina?), tosto da mozzare il fiato, e non ho resistito alla tentazio-ne.
Tra poco Carlo Molinari ti prenderà per mano e ti condurrà in un Pianeta sconosciuto (e tale destinato a rimanere per la gran parte di noi). Un mondo irreale in cui - tranne chi ci vive, in un limbo in cui il dolore viene distillato in forme variegate e uno spiraglio di luce è consentito solo a chi spera - è severamente vietato entrare, se non a pochi addetti ai lavori.
Quelle che leggerai sono testimonianze dirette e sconvolgenti, che l'Autore ha raccolto tra lettere dirette all'associazione e a volte anche tra qualche articolo di giornale. Sono un cam-pionario di lettere tra le più significative - ma molte altre sono nel suo archivio, e nell'archivio dei numerosi volontari (tra questi ci sono anch'io) che soccorrono per iscritto (ma non solo) un fratello che ha infranto la legge e vive 'ristretto' in carcere.
Si tratta di 'voci da galera'; parole accorate, che nascono e fioriscono in una realtà separata e allucinante, lanciate verso un interlocutore amico, che dall'esterno gli fa arrivare qualche fra-se di conforto, un libro, una scatola di pennarelli per ingannare il tempo... Uomini-non uomi-ni, che in molti casi hanno perso tutto, o quasi, a incominciare dagli affetti.
Dai loro scritti è possibile conoscere la loro pena, e viene voglia di pensare che non c'è delitto che valga la privazione della libertà... Ma le nostre convinzioni qualche volta oscillano tra la fiducia nella capacità di redenzione e la consapevolezza della cattiva inclinazione, tra il desi-derio di dare una mano e una vaga sensazione di inutilità... Saremo abbastanza forti da opera-re il salvataggio? Credo che valga la pena almeno provarci.
Di certo, un muro impenetrabile divide la loro esperienza dalla nostra; un muro dietro il quale, nel sovraffollamento che toglie ogni residua dignità, sono celati sofferenze e abusi.
Giuliana Merotto
Introduzione dell'Autore
Cara Lettrice, caro Lettore,
questo libro raccoglie svariati spezzoni di lettere (e non solo) ricevute direttamente dal car-cere. Forse qualcuno potrà chiedersi come ne sono venuto in possesso, domanda più che le-gittima.
Alla fine del Dicembre 1995, mi venne l'idea di scrivere ad un detenuto che chiedeva un po' di compagnia e conforto morale (per la solitudine in cui si trovava) e la cui lettera era stata letta, per sensibilizzare gli ascoltatori sulle tematiche carcerarie, a Radio Maria nell'apposito spazio che l'emittente cattolica dedica da parecchi anni al mondo del carcere: ovvero il sabato sera, 20 minuti prima delle 24, e alle 0.40 ca. dopo la preghiera del S. Rosario; inoltre, ogni terzo lunedì del mese dalle 22.45 in poi. Mentre stavo scrivendo a getto, come se l'avessi fatto da sempre e come se conoscessi da una vita quella persona reclusa, pensai che la stessa cosa poteva essere fatta anche da altre persone [(a dire il vero, migliaia di persone lo avevano già fatto e lo stavano facendo da anni e anni, ben prima di me (per fortuna!)].
Pensai, al tempo stesso, di creare e organizzare appositamente un gruppo di "scrittori di let-tere": volevo a tutti i costi cercare di trovare qui in zona e poi in tutta Italia delle persone di-sponibili a scrivere a chi sta in carcere: volontariato penitenziario tramite corrispondenza.
Ma come fare? Con il passaparola, con le inserzioni nei giornalini di annunci gratuiti.
Detto, fatto: grazie a Dio.
Nacque così in breve tempo "AMI.CA. (Associazione Amici dei Carcerati)": attualmente siamo circa 80 soci/e sparsi in tutta Italia (persone eccezionali che desidero ringraziare pub-blicamente per la loro indefessa costanza, generosità e altruismo), con circa 150 Fratelli e So-relle che vivono la dura esperienza del carcere e che tramite lo scambio epistolare ricevono, e ci offrono in larghissima misura, una ventata di Amicizia, compartecipazione e a volte anche buon umore (sembrerebbe un paradosso ma è così), certamente anche denunciando immani e disastrosi sconforti personali e strutturali.
Nella nostra cultura edonistica e consumistica, tipicamente occidentale, il "pianeta carcere" è un mondo che abbiamo imparato a non considerare e a ghettizzare. Non ci si pensa proprio. Anzi, alcuni se potessero ci metterebbero una bella e grande pietra sopra!
Come avveniva una volta per coloro che erano affetti da lebbra: venivano cacciati fuori dalle città o villaggi, gettati in fosse già predisposte e rinchiusi sotto sbarre.
E là dimenticati per sempre.
E questo è quello che succede, grosso modo, per il mondo del carcere, quindi per i detenuti: qualcuno dirà a buona ragione che i lebbrosi non se lo meritavano di certo mentre chi sta in carcere se lo "merita" senza dubbio.
Tuttavia questo è vero solo in parte. Ecco che qui, innanzitutto, c'è tanta disinformazione: il 47% di chi sta in carcere è ancora in attesa di una sentenza di primo grado! La popolazione detenuta italiana è formata da circa 57.000 persone: 26.800 ca. di queste stanno ancora aspet-tando che un giudice le dichiari colpevoli o innocenti! Prima si viene arrestati e scaraventati in prima pagina, a volte anche come "ipotetici mostri o brutali assassini" (ma intanto tutti ci cre-dono), poi si comincia ad aspettare che qualche giudice inizi il lungo iter del processo.
E intanto si attende, si attende e si attende ancora: in carcere.
E quanti, quanti purtroppo, sono risultati poi innocenti "regalando" allo Stato anni e anni della propria vita: in cambio di cosa (ammettendo per l'assurdo degli assurdi, e contro natura umana, che si possa barattare la propria libertà violentata, in quanto risultati poi innocenti, con una manciata di soldi)? In cambio di qualche milione di vecchie lire per ogni anno passato dietro le sbarre da innocenti, lontani e strappati dagli affetti, dalla moglie o dal marito, dai fi-gli, dai parenti, dal lavoro quasi sempre perso a causa della detenzione? E non continuiamo per decenza umana questa penosa lista (poi qualcuno si meraviglia anche per il tasso così ele-vato dei suicidi in carcere).
Leggerete nelle pagine a venire alcuni di questi agghiaccianti casi: no, non ci si trova sul set di un macabro film, qui parliamo di vita reale. Com'è capitato a tanti di loro per scellerato ed aberrante errore giudiziario, potrebbe capitare anche a me, o a voi. (per carità, non lo augu-riamo a nessuno! Dio ce ne scampi!): quindi è ben facile puntare il dito, mentre è molto più difficile farlo con cognizione di causa (analizzando caso per caso, cosa peraltro impossibile), senza cadere nei soliti tranelli della amorale (a volte) di massa. So bene che questo discorso potrebbe attirarmi molti mugugni e qualche antipatia ma sinceramente preferisco proseguire il più lealmente possibile su questa strada: tutti noi sappiamo bene che per scagliare la prima pietra dobbiamo innanzitutto guardare dentro noi stessi e poi girare i tacchi.
E comunque essere informati su quello che si sostiene essere il vero, mentre magari non è altro che un "dagli all'untore" massificato e ben pompato (a regia) dai mass media sensazio-nalistici a caccia di strani esseri lombrosiani da schiaffeggiare in prima pagina anche se la no-stra Costituzione Repubblicana ordina la presunzione di innocenza fino al termine del proces-so di primo grado: ma intanto sono ben capaci lo stesso di rovinare l'esistenza a certi poveri cristi, vittime delle maglie di una giustizia che fa acqua dappertutto come uno scolapasta (pa-rola d'ordine: munirsi sempre di ampio ombrello, non si sa mai.).
Un banalissimo esempio, ma reale, accaduto? Due persone senza lavoro rubano per procura-re qualcosa da mangiare in famiglia: uno ruba dell'oro in una gioielleria con una rapina a ma-no armata; l'altro ruba verdura e frutta da un ambulante dandosela a gambe tra la folla mezza inferocita. Entrambi colpevoli: rubare è un reato. Non ci piove. Ma in questi due casi chi sarà "più colpevole" in senso lato? Rubare oro e rubare insalata e cetrioli hanno la stessa valenza (a prescindere in teoria dalle modalità e dalle pene inflitte)?
Eppure entrambi acquisiscono lo "status" di detenuti: entrambi finiscono in galera come la-dri.
Vai tu ora a spiegare ad un datore di lavoro, al fine pena, come sono andate le cose vera-mente. Comunque sia, tu sei e resti, nel pregiudizio collettivo, un ladro.
Che forse potrebbe ancora rubare: quindi non ti assumo, non ti do fiducia, e tu rimani per strada di nuovo, senza soldi e senza lavoro. Tragico.
Che siano tutti "angeli" allora? Ma neanche per sogno: nessuno ha mai detto questo.
Forse riuscirò a spiegarmi un po' meglio nelle righe a venire, se avrete la pazienza e la bontà di spingervi sino alla fine di questa mia introduzione.
Certo che sarebbe anche interessante capire (ma non ci vuole molto.) perché i mass media ci propinano sempre e solo fattacci di ex detenuti e/o detenuti in semilibertà che commettono reati (così gran parte della gente digrigna ancor più i denti verso "la categoria" in generale e magari li vorrebbe vedere anche appesi a testa in giù e forse anche fucilati all'istante.) quan-do le statistiche parlano chiaro: solo lo 0,1% di chi esce dal carcere vi ritorna come recidivo.
Lo 0,1%: non l'1% o il 10%. No, non è un errore di battitura: è lo 0,1%!
Lo sapevate?
La nostra Costituzione all'art. 27, II° comma, inoltre, prevede la "rieducazione" del condan-nato: come? Quando?
Pare un'assurda barzelletta (anzi lo è).
Qualcuno abbia la bontà di spiegarci come si fa a "rieducare" un detenuto facendolo vivere con altre 5/6 persone in una cella costruita per 2 (vedi "San Vittore" a Milano, costruito per 1.500 detenuti ed affollato da 2.400 persone, o "Santa Bona" a Treviso, costruito per ospitare 150 detenuti e attualmente "abitato" da circa 250)? Un nostro corrispondente mi ha racconta-to, faccia a faccia, che vive in una cella mignon con un letto a "tricastello" tant'è che quando uno sta in piedi gli altri due devono restare a letto per mancanza di spazio vivibile: ovvia-mente con bagno turco compreso in cella, così quando il fortunato di turno che sta in piedi deve "andare" anche in bagno (basta che sposti solo qualche piede) gli altri due devono o pos-sono "assistere" in diretta all'avvenimento.il "Grande Fratello" in confronto è uno spettaco-lino da principianti (e qui non servono neanche una televisione nè mille telecamere).amara, e quanto amara, ironia."Rieducazione" del condannato?!
È forse "rieducazione" che certi magistrati di sorveglianza rigettino continuamente permessi di libera uscita quando i pareri scritti dei sorveglianti e/o degli educatori (sulla affidabilità e la buona condotta del detenuto) sono più che favorevoli?
È forse "rieducazione", in alcuni carceri, potersi fare la doccia solo una volta alla settimana (specie d'estate)?
È forse "rieducazione", in quasi tutte le carceri, non avere la possibilità di lavorare, di gua-dagnarsi qualcosa per non gravare sulle spalle dei contribuenti e prima ancora (se c'è e se non è già frantumata) della propria famiglia? È forse "rieducazione" star male e sentirsi rifiutare in tantissimi casi i farmaci ad hoc perché ci sono sempre i classici tagli annuali alla Sanità e i primi a pagarne il prezzo, oltre agli anziani, sono sempre i detenuti, visto che le dispense delle infermerie di certe carceri hanno buchi da far paura?
Non parliamo poi dei farmaci salvavita.
È forse "rieducazione" che in tantissimi carceri ci siano solo un educatore ed uno psicologo ogni 200/250 detenuti?
Si parla comunemente anche di "reinserimento" nella società, una volta scontata la pena: più di un detenuto ci ha confessato di avere il terrore di uscire (al fine pena) per non sapere dove andare a dormire, dove cercare un lavoro, dove procurarsi dei soldi per mangiare, per vivere, per spostarsi. Ci sono, come sempre, alcune comunità cattoliche e/o laiche che si occupano anche degli ex detenuti, ma a ben vedere, sono veramente poche, mosche bianche. Se una per-sona è tossicodipendente, alcolista, malata di AIDS ecc. trova quasi sempre un aiuto (per for-tuna, grazie a Dio).
Ma credete, chi esce dal carcere e va in cerca di un lavoro col "marchio" di essere un ex carcerato, purtroppo resta tantissime volte a piedi e deve sottoporsi a delle peregrinazioni in-dicibili per poter ricominciare una vita seriamente onesta a tutti gli effetti. E si porta così die-tro una seconda condanna, tatuata a fuoco, dopo aver pagato la prima (e a che prezzo!): quella dell'indifferenza e dalla ghettizzazione della nostra società. Cambia l'uomo ma troppo spesso non cambia la società.
Ben diceva uno scrittore, in una frase celeberrima: "Fa più rumore un albero che cade ri-spetto ad una foresta che cresce in silenzio".
E per citare anche Raoul Follereau: "Rifiutate di mettere la vostra vita su un binario morto. Ma rifiutate anche l'avventura in cui la parte dell'orgoglio è più grande di quella del servizio. Denunciate, ma per esaltare. Contestate, ma per costruire. Che perfino la vostra rivolta stessa e la sua collera, siano amore!".
Ecco, in questo libro lasceremo un po' di spazio a chi spazio non l'ha mai avuto. Cerchere-mo di aprire un piccolo barlume di luce con la speranza che questo porti ad un sincero sforzo di comprensione, se si vuole anche caritatevole, denudata dai soliti pregiudizi di massa che nullificano l'Uomo.
Vedremo tanti flash di una foresta che cresce in silenzio: che vuol farsi conoscere.
"Voci da Galera" è qui per questo, pur con tutte le sue immense limitatezze.
Proveremo ad ascoltare: per conoscere di più e meglio.
Affinché i Lettori conoscano, siano informati su questo "pianeta" che probabilmente non sappiamo neanche che esista nella costellazione della nostra vita.
Carlo Molinari
Associazione AMI.CA.
(Amici dei Carcerati)
C.P. 84
31015 Conegliano (TV)
http://communities.msn.it/AmiCaWebAssociaz...icideiCarcerati[email protected]c.c.p. n° 10881316
P.S. Per motivi di privacy e di sicurezza, non vengono citati né cognomi, né date, né carceri d'appartenenza (a meno che non siano di pubblico dominio).
Quando il Lettore incontrerà il simbolo (.) vuol dire che un pezzo di lettera, un nome o una data, sono stati omessi per le ragioni di cui sopra.
Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il Regno dei cieli.
Beati quelli che piangono,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame
e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati
figli di Dio.
Beati i perseguitati
a causa della giustizia,
poiché di essi è il Regno dei cieli.
(Matteo 5, 3-10)
VOCI DA GALERA
Sto scontando una pena di 5 mesi (diconsi 5.) per un lieve reato commesso nel carcere di (.). Ciò che dico non vuole essere una lamentela dettata dalla detenzione, anche se per il reato commesso non dovrei stare in carcere. Ovviamente è da supporre che qui dentro vivano persone a due gambe, non voglio dire soggetti umanoidi, invece in questo "cesso" di carcere (perché tale è) si è verificata la convivenza obbligata con animali poco simpatici: formiche, formiconi, cimici, zanzare ed altre specie non invidiabili, anche se a primeggiare sono gli sca-rafaggi da Guiness dei primati, enormi, con nere corazze lucenti, col maledetto vizio di predi-ligere il bagno e di uscire dai nascondigli più impensabili di notte, quando per qualcuno di noi c'è l'obbligo di andare al bagno fuori orario e scendendo dalle brande a castello, prima di toc-care il pavimento, prendono subitanea confidenza con le coppie di scarafaggi in transito e si sente il fastidioso "crac" della poltiglia sotto le piante dei piedi. Mi sono premurato di far pre-sente questa situazione: mi è stato risposto che sono innocui e che l'estate è la loro breve sta-gione, che hanno sempre diritto di vivere secondo l'insegnamento francescano.
E la disinfestazione?
Una semplice ma fastidiosa alzata di spalle per tutta risposta.
Io fra poco esco, sono fuori, ma sono certo che nella mia memoria rimarrà indelebile lo schifoso rumore degli scarafaggi schiacciati. Prima di concludere non voglio dimenticarmi di dirvi che nei cortili del passeggio non vi sono scarafaggi ma serpenti, per fortuna non veleno-si. Non sarebbe più giusto appellare questo Istituto non super-carcere ma un super-zoo?
Carmine
La mia vita è sempre stata costellata dal disagio di non essere, per debolezza di carattere, capace di inserirmi e/o ambientarmi socialmente.
Per sentirmi parte di questa società ho fatto uso di droghe che hanno gettato nella spazzatura venti anni della mia vita. Ora mi sento in grado di costruirmi una vita vera, senza dover ricor-rere a droghe, alcol ecc. ecc., per essere accettato per quello che sono, con tutti i miei difetti e i pochi pregi. Potranno anche ridere di me, per il mio modo di essere.non mi interessano certi giudizi perché mi appagheranno solo quelle persone che mi accettano per quello che so-no. L'assurdo di tutto è che mi sono trovato a mio agio nell'essere me stesso perché ho tro-vato persone che mi hanno accettato, consigliato ed aiutato all'interno dell'O.P.G. (ndr: Ospedale Psichiatrico Giudiziario) di (.). Non mi è stato imposto di cambiare il mio modo di essere, la mia personalità, ma solamente di migliorarla, di non buttare più via la mia vita nella droga e nell'alcol.
Non ho dovuto subire ogni sorta di umiliazione e gli abusi psicologici che ho sperimentato nella comunità terapeutica dove sono stato in precedenza. Con questo non voglio certo affer-mare che tutte le comunità terapeutiche per tossicodipendenti applichino le stesse formule di trattamento. Voglio essere ancora fiducioso in queste strutture.
Infatti ho accettato di andare in un'altra comunità terapeutica a doppia diagnosi. Ma se mi si presenterà di nuovo la stessa situazione della comunità dove sono stato in precedenza non esiterò a chiedere al Magistrato di Sorveglianza di farmi ritornare all'O.P.G. di (.).
Forse sbaglio, ma preferisco vivere in un mondo di "pazzi" che in un mondo di "sani" che ti fanno impazzire.
E, piano piano, morire dentro.
Filippo
***
Ci terrei ad esporre un problema che reputo il più urgente: l'ozio!
Il detenuto in carcere si rassegna nella "costretta" serenità del dolce far niente ed in queste situazioni è difficile che riaffiorino alla mente i pensieri negativi che questa condizione di sta-si alimenta o produce.
La possibilità di un lavoro, oltre che permettere l'acquisto di prodotti di primaria necessità, toglierebbe il soggetto da tale condizione dandogli nuovi stimoli e dunque una nuova identità. Può accadere che persone che non hanno mai lavorato in vita loro con l'impegno lavorativo riscoprano nuove emozioni da portare avanti in futuro e di conseguenza chiudano con il pas-sato, con tutte le sue delusioni, paure, traumi. Come accade che quello ingegnoso e volentero-so soffra doppiamente in questa condizione amorfa, poiché pur con tutta la sua buona volontà non trova sbocchi o consolidamento in alcun luogo!
In entrambi i casi il detenuto non sarebbe più "natura morta" ma una forza lavoro che paga i contributi e si mantiene da solo senza gravare su società e familiari.
Ci sono all'interno di queste strutture persone che per una degenerazione personale hanno commesso reati anche gravi, ma che non hanno nulla a che vedere con il crimine o la seppur minima intenzione a delinquere perché sono persone che hanno sempre lavorato e condotto una vita socialmente onesta. Quando arrivano qua sono costretti ad indossare un abito che non è il loro, perciò smettiamola di vedere il carcere come luogo di persone mentalmente distorte, mafiose e pericolose, o semplicemente il non luogo ed instauriamo un rapporto innovativo.
Per ogni persona comunque che ha intenzione di cambiare ci dovrebbe essere la seppur mi-nima possibilità di non vivere nell'ozio in quanto non sicuramente rieducativo, ma quale lavo-ro per il detenuto? Un cittadino per il fatto di essere rinchiuso in una prigione non perde le sue capacità professionali ed ha particolari attitudini che non sono sempre negative o antisociali.
In questo carcere, le sole attività lavorative sono quelle di servizio o di manutenzione per conto dell'amministrazione. E sono generalmente accettate per bisogno o per dimostrazione di buona condotta. Relativamente sarebbe facile impiantare un lavoro di montaggio per un'azienda che voglia comunque superare le innumerevoli difficoltà burocratiche, causa una lievitazione dei prezzi. Meglio sarebbe l'utilizzo ed il miglioramento della professionalità esi-stente per una produzione il cui valore non sia solo quello del prezzo, ma anche qualità, de-sign, puntualità e gestione.
Un lavoro artigianale migliora il rapporto con la società civile.
Per questo ci rivolgiamo ai numerosi artigiani che vogliano prendere in considerazione la nostra disponibilità, superando i comprensibili pregiudizi formatisi per mancanza di comuni-cazione, sperando che quest'appello sia letto da più persone possibili ma specialmente da per-sone "di buona volontà" che non abbiano il paraocchi sempre a portata di mano.
Mauro
***
Il mio primo pensiero è: fra quanto uscirò? Poi pensi a quando sei entrato, e pensi a nascon-dere le tue debolezze perché se vengono manifestate, gli altri potrebbero approfittare e non ti considererebbero. Quindi, certi pensieri devono rimanere segreti.
Roberto
***
Credo di pensarla superficialmente: uno commette un reato e paga.
E' un problema di adattamento. Penso soprattutto a quello che potrei fare a casa. Alcune volte vedo nero, altre limpido: quando vedo nero penso ad "uscire fuori" e quando vedo chia-ro ne sono fuori e penso alla vita e al futuro.
Alessandro
***
Penso alla mia famiglia: mi manca. Poi penso ai motivi per cui sono qua. A quanto tempo devo rimanerci. Penso qualche volta pure di morire.
Pasquale
***
Quando sono in cella da solo mi annoio e penso alla "compagnia", mi annoio a guardare la televisione e ascolto la musica sempre di più. Quando sento la musica penso di essere "fuori" in una discoteca a ballare.
Giovanni
***
Io penso che voglio andare a casa! Sempre. Penso al giorno del processo con molta ansia; penso ai giorni quando ero fuori e al lavoro. Devo trovarmi un lavoro.
Gianni
***
Penso di andarmene a casa e a come mettermi d'accordo con l'avvocato per la pratica per uscire il più presto possibile. Questo è il pensiero di tutti quanti. Penso alla mia esperienza e a comportarmi bene per non peggiorare la situazione.
Luigino
***
Quando sono in cella, penso a non "perdere colpi" nel tram-tram quotidiano: spesa, terapia, ecc.. E poi alle cose che veniamo a sapere tramite i Media, che sono molto più grandi della nostra realtà qui a (.).
Nei cinque minuti in cui si pensa alla famiglia e a ciò che verrà, spero.
Dario
***
Penso a mia madre e a mio padre. Ho un grande amore per loro e per i miei fratelli. Penso al passato, che non rifarei mai più quello che ho fatto e penso alla campagna che ho lasciato e alle cose che tenevo a cuore: la saldatrice e la motosega!
Raniero
***
Quando sono da solo il mio pensiero rimane perplesso dalle circostanze dell'ambiente e va nel culmine della mia disperazione contenendomi in un equilibrio psicofisico controllando me stesso, raggiungendo così l'obiettivo di trattenere la mia depressione, le mie apatie, la mia so-litudine.
Aldo
***
Pensieri brutti. Pensieri del passato. Tento di capire il passato e sto male. Mi piacerebbe pensare a cose belle come a UFO, Spazio 1999 e Sandokan perché mi ricordano i bei tempi che ho vissuto, anni '60 e '70, perché in quegli anni stavo benissimo. Qualche volta ci riesco.
Edoardo, nome fittizio
***
Non ho pensieri perché sono sempre impegnato a leggere e la televisione mi distrae. Cucino, mi preparo la roba, mi rimane soltanto il pensiero del lavoro quando uscirò. Alle altre cose cerco di non pensare.
Roberto
***
O.P.G., o regno dei caffeinomani.
C'è chi lavora, chi mangia, chi studia e chi legge o scrive: c'è persino chi dipinge.
C'è di tutto qui dentro, ma tranne quei pochi che si salvano con armi proprie, siamo tutti preda dello stesso destino e afflitti dallo stesso dilemma: il vitto.
Obbligati e sfamati dagli psicofarmaci, ingurgitiamo tutto ciò di più stomachevole che mai vidi in una mensa. Vanno forse di moda pomodori e piselli? Non sembra.
E i cucinieri lo fanno apposta per farci soffrire o sono costretti con le frustate a dare questa roba ai loro simili? E' da poco che sono qui ed ho messo su dieci chilogrammi mangiando quasi niente. E' cibo magico, forse, vita passiva o il gonfiore degli psicofarmaci?
Ma certo, siamo talmente utili alla società che ci fanno ingrassare per poi affettarci e spedir-ci nelle macellerie a sostituire la mucca pazza.
Ora ho capito! Bastava chiederlo!
Antonino
***
Qualche tempo addietro scrissi alcune riflessioni sul carcere, sostenendo che esso è sempre più costretto a vivere del suo, è sempre più "obbligato" a mancare alle auspicate attese della collettività, nell'impossibilità quindi di partorire giustizia e speranza. Scrissi dei tanti suicidi e dei troppi silenzi. Ricordo che fui accusato di falsare i dati, di stravolgere la realtà, di mistifi-care la verità. Fui indicato come uno scrittore che non sapeva dare conto della propria scrittu-ra, cioè del valore delle parole. Con sorpresa, alcuni giorni dopo, un grande giornale pubblicò un servizio che confermava le mie tesi, i suicidi in carcere sono effettivamente aumentati drammaticamente.
Soprattutto, ribadisco io, si è deteriorata quella solidarietà e partecipazione costruttiva tra il dentro e il fuori. Quel collante-riabilitante a fatica edificato negli ultimi anni. Solidarietà che non è un sentimento pietistico né parente lontana di un assistenzialismo passivo, bensì è un preciso interesse collettivo, affinché alla giusta condanna del colpevole si affianchi quella prevenzione-accompagnamento che consente di combattere la recidiva dilagante. Nel silenzio e nell'indifferenza colpevole, spesso mi sono chiesto qual è il volto nascosto dietro le righe di una notizia. Qual è il volto e la storia dell'ultimo uomo scivolato in "SCACCO MATTO" in un carcere. Quanto quest'ennesimo suicidio risarcisce in termini di umanità, al di là della me-ra notizia?
Per quanto concerne il carcere penso che non tutto ciò che accade nell'ambiente penitenzia-rio è arbitrario, illegale, ingiusto, forse è solo il risultato del nulla prodotto, appunto, per man-canza di un preciso interesse collettivo o meglio della sua comprensione sensibile.
Perciò a nulla vale il nuovo Ordinamento Penitenziario, il rafforzamento degli Agenti di Polizia Penitenziaria, e di contro la negazione di ogni pietà attraverso la concessione di un in-dulto o di una amnistia.
Se non interverrà un vero ripensamento-intervento culturale, c'è il rischio di precipitare all'indietro: in una proiezione dell'ombra che non accetta né consente spazi di ravvedimento. Non è il caso di avvitarsi nel pessimismo, di arrendersi non se ne parla, perché come ha detto Don Franco Tassone, responsabile della Comunità "Casa del Giovane" di Pavia: "occorre vin-cere l'ultima battaglia". Infatti sono convinto che anche fra le mura di un carcere ci sono uo-mini consapevoli dell'esistenza di leggi morali, oltre che scritte.
Ci sono uomini che possono riconoscere le leggi dell'armonia sociale, quelle leggi che ad un certo punto si è pensato di poter dimenticare. Però penso anche a quell'uomo, l'ultimo della serie che s'è impiccato.
A quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo l'importanza di demolire i ghetti mentali, di per sé espressione di quello spirito umano.spesso incatenato. Penso allora a questa vita, che è tutta da vivere sempre e comunque, proprio perché è un'avventura incerta, e incerta significa che si patisce, si soffre, si cade, e si arriva alla coscienza della poca conoscenza, dei tanti mo-tivi che sfuggono. Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà dell'accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe assenza di saggezza. So bene quant'è difficile agguantarne l'orma, e quanto a volte ciò sembri lontano, sebbene così straor-dinariamente vicino, al punto da non vederne neppure l'ombra. In un carcere è difficile perfo-rare quella superficialità che è corazza a difesa, il "muro di niente" contro cui cozziamo e mo-riamo.
E' davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità, navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a quell'essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e ad-dirittura svelarci il significato da dare alla vita.
Qualcuno ben più illuminato di me ha detto che, forse, il significato della vita, propriamen-te, non va cercato: dobbiamo solo aiutarlo a rivelarsi e quindi accoglierlo. Fuggire da noi stes-si, dalla realtà stretta di una cella, annullando il significato della propria esistenza, non giusti-fica la colpa, né le ragioni che ci inducono a farla finita.
Tanto meno indurrà la società a chiedersi se questo ultimo gesto è lecito, e se è morale. An-cor meno spingerà a domandarsi se per caso Dio non sia morto proprio dentro la cella di un carcere, ipocritamente descritto come un luogo di speranza, mentre permane un luogo di morte. Forse sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di un carcere a misura di uo-mo, anche dell'ultimo degli uomini.
Di come il detenuto, oltre alla propria condanna, sconti una ulteriore sanzione, quella di mo-rire a tempo determinato.
Perché in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e umiliazioni, va di moda la flessibilità, non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa. Si tratta di fles-sibilità nel risolvere i problemi endemici che soffocano l'Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza pari passo con l'imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati per medaglie e successi da conse-guire a tutti i costi.
Io sono un detenuto, lo sono da trent'anni.
Scrivo, leggo, lavoro, ascolto e penso, ho gratitudine sincera per chi mi ha aiutato ad essere ciò che sono oggi, sono consapevole delle difficoltà in cui vive il carcere, e ancor di più quelle in cui sopravvive l'uomo detenuto. Sono conscio che le utopie, la pietistica, fanno solo male a entrambi.
E' urgente smetterla con le solite frasi fatte, luoghi comuni, e fredde didascalie. In carcere non si muore solamente per le strutture vecchie e malandate, né per l'assenza cronica di Ope-ratori.
In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo separato davvero, da una società che cor-re all'impazzata al supermercato delle suggestioni, degli ideali venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che libera, ma fatica di pochi momenti.
In carcere è morto un altro uomo?
I mass-media hanno sparato a zero sul sistema, hanno detto che si è suicidato per l'invivibilità della prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta.Ma ecco che le parole assumono la cantilena di un nuovo e altrettanto inaccettabile epitaffio, perché anche negli Istituti di più recente costruzione, dove ci sono pochi detenuti, più operatori, e spazi di vivibilità umana in abbondanza, un altro detenuto si è tolto la vita.
Non c'è bisogno di richiamare per forza una fratellanza allargata, di ripetere "mio Dio.", penso piuttosto che occorre ritornare a una coerenza che non è spendibile con le sole parole. Una coerenza che riporta al centro l'essere umano, con l'attenzione vera per chi subisce il dolore dell'offesa tragica, e con l'attenzione sensibile che non è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo, affinché l'uomo possa migliorare e trasformarsi. Bisogna bandire le ciance, e chiamare per nome le mancanze, le assenze, gli incitamenti che inducono a non pensare a chi cade, ma spronano a seguire chi ben cammina.poco importa se calpe-stando si arranca. Eppure non tutto viene per nuocere, infatti questa epidemia di suicidi e di numeri a scalare forse risolveranno il problema asfissiante del sovraffollamento e, perché no, anche quello della spesa pubblica: e per mantenerne uno in meno, e per non costruire altri pe-nitenziari.
Pardon, "molok" nelle nebbie transilvane.
Vincenzo Andraous
Ergastolano, scrittore, poeta, saggista pluripremiato per il suo impegno a favore dei giovani, e non solo, anche dalle cariche più alte dello Stato; carcere di Pavia e Tutor della Comunità "Casa del Giovane" di Pavia.
Ndr: nell'introduzione ho scritto, e anche nel titolo di questo libro, che lo scopo dello stesso è il cercar di "dare voce a chi non ce l'ha", o non l'ha mai avuta pubblicamente. Tuttavia, in questo caso specifico, e in altri similari a venire nelle prossime pagine, ho ritenuto impor-tante la pubblicazione di questo articolo di Vincenzo Andraous poiché tratta un tema molto scottante e purtroppo sempre attuale, e quasi mai pubblicizzato, quale quello dei suicidi in carcere.
***
Ciao cari amici di AMI.CA., siamo qui per dar voce a varie testimonianze raccolte nelle se-zioni. L'argomento in questione è la grande difficoltà che a volte s'incontra a causa di inci-denti di percorso nei quali si può incorrere, dal punto di vista dei rapporti (ndr: disciplinari).
Parlando con alcuni detenuti è emerso che se uno viene arrestato per la prima volta ed ha commesso un reato, entra in questi posti e può accadere che venga trattato come non immagi-nava che uomini potessero essere trattati (perché purtroppo il carcere non è un albergo, ma è un carcere).
Accade anche che si subiscano delle ingiustizie in alcuni casi anche passibili di denuncia, ma in carcere ci dobbiamo vivere, e quindi le denunce da parte dei detenuti sovente per motivi di opportunità non vengono fatte, anche quando ci sarebbero gli estremi.
Invece le denunce contro altri detenuti sono all'ordine del giorno.
Una persona, ad esempio, anche se nella vita ha sempre lavorato ma ha commesso uno sba-glio e viene a trovarsi qui, può prendere un rapporto solo perché ha 10 o 11 litri di latte o per-ché ha un paio di scarpe in più in cella, o perché ha lo spioncino del bagno chiuso (visto che magari sta facendo i propri bisogni), oppure sta fumando una sigaretta dove non dovrebbe. Sono molti i casi in cui si può facilmente prendere un rapporto che di norma viene a costarti 45 giorni di galera in più, per mancata concessione dei giorni per la liberazione anticipata.
Diventa poi quasi normale che quando uno esce di galera dentro di sé non abbia altro che rabbia, ed invece di andare a lavorare passi alle rapine di sangue, senza neanche pensarci due volte, perché in realtà in carcere si è incattivito, inasprito per quanto ha dovuto patire.
Qualcosa in tutto questo è sbagliato, c'è un errore di fondo se il luogo che dovrebbe farti ri-flettere sui tuoi errori, in realtà t'incattivisce, qualcosa non va in tutto questo. Naturalmente non è tutto così: in carcere si ha anche l'opportunità di studiare, di frequentare corsi, ma que-sta componente cattiva purtroppo è presente.
Ad esempio, un paio di mesi fa è venuta a mancare l'acqua per ben otto ore in tutto il peni-tenziario. Fin qui tutto normale, ma il fatto che non è stato dato nessun avviso di modo che potessero essere fatte delle scorte anche minime, ma necessarie per le cose più urgenti, magari non si è potuto fare, ma il problema era reale! Alcuni detenuti hanno fatto una protesta pacifi-ca rifiutandosi di rientrare nelle proprie celle: sappiamo benissimo che non è consentito ma se ci fosse stata un po' più di comprensione e se si fossero messi nei nostri panni avrebbero ca-pito cosa significhi passare l'estate chiusi dentro una cella, con i blindi chiusi, per lo più senza acqua e senza la possibilità se magari "scappava" un bisogno particolare.(non avendo acqua che fai? Un sacchettino volante? Dimostrando di non aver educazione né rispetto verso gli al-tri?).
E' capitato che un telegramma è stato consegnato all'una di notte ad un detenuto che stava dormendo, su questo si può fare nome e cognome.il telegramma, risultava dal timbro, era arrivato la mattina presto.
Cosa si deve dire? Questo, secondo il nostro modesto parere (e anche quello degli altri), è un agire negativo che riesce solo a tirar fuori la cattiveria di una persona, che magari non sa-peva neanche di avere. Questa, anche se per molti altri può sembrare irreale, è la realtà dei fatti.
Tutti sanno come vanno le cose qui dentro o per lo meno lo sanno e, o non possono fare niente o non gli importa di risolvere nulla. Ma grazie a Dio esistono ancora persone che in noi credono e ci concedono un'altra opportunità donandoci fiducia.
Giovanni & Nicola
***
Da 12 anni sono in ambienti dei quali conosco gli anfratti, le ansie, i cambiamenti intercorsi: forse è addirittura irrappresentabile il carcere se non lo si tocca con mano. Eppure mi piace-rebbe significare un tragitto diverso, un cammino sul difficile, ma più vicino al reale.
Nonostante il carcere ci stia facendo diventare delle larve, in quanto inumano, non ci rasse-gniamo ad essere oggetti. Questa mia riflessione vuole constatare che, nonostante la mia con-dizione di detenuto, mi ritengo comunque parte di un insieme in quanto sono vivo, poiché faccio parte di una collettività e senza di questa io stesso non sarei più una persona di questa civiltà che mi circonda, quindi non sarei più la stessa persona.
Affrontare il cambiamento è una sfida: per l'amministrazione penitenziaria, per il detenuto e per l'intera società.
Se il carcere infatti resterà tale o scivolerà in un sistema chiuso totalmente, esso non riuscirà a gestire i problemi di un continuo e repentino cambiamento, e dell'aggiornamento relativo, e certamente si piegherà su sé stesso. Se invece diverrà un sistema di detenzione aperto ai nuovi ideali, è possibile allora che diverrà anche luogo di testimonianza.
Alfredo
***
Mi chiamo Stefano e sono del segno del Sagittario. Ho sempre sognato di tornare negli Stati Uniti dove sono nato il (.), credo. Dico credo perché poi da piccolo mi hanno portato in Ita-lia. Ma mi è sempre rimasto un input americano, di libertà, amore sincero e giustizia. Ora so-no qui proprio perché non capisco l'Italia. Reati gravi non ne ho mai commessi.
Sì, ho commesso dei reati ma sono stati causati da droghe che mi hanno dato a Milano. Ma io amo solo Catania e Firenze (.). Ora mi chiedo: perché non lasciarmi andare in U.S.A. con la mia ragazza di nome Caroline (.)?
Forse è stata una setta satanica di Torino e Milano. Comunque io ricordo con nostalgia la mia felicità di bambino e la mia malinconia quando non avrei mai immaginato di finire nei manicomi. Basta. Ho pagato più di quanto dovevo pagare.
Eppure sono un giusto. O forse no. Però ho sempre detto la verità.
Ora voglio solo una cosa, anzi due: 1°, avere asilo in U.S.A.; 2°, disintossicarmi e poi tutto andrà bene e potrò ancora una volta sognare pianeti felici e di volare e di essere invisibile.
Stefano
***
INCONTRANDO
Ho incontrato un cieco per la strada,
e sorridendo mi ha chiesto come era fatto il mare.
Ed io sorridendo gliel'ho spiegato.
Sempre sorridendo mi ha chiesto com'era fatto il cielo.
Ed io sorridendo gliel'ho spiegato.
Sempre sorridendo mi ha chiesto com'era fatto il mondo.
Ed io piangendo me lo sono inventato.
Inviata da Roberto
***
Cari amici,
vi elenco un po' di cose che qui non vanno: si vive in celle super affollate, in 5/6 persone su celle di 20 mq. dove devi soggiornare 20 ore al giorno; l'aria è poca per le persone che ci vi-vono. Non ci sono campi sportivi e neanche un'area verde. Quando si va all'ora d'aria siamo immersi tra edifici quindi entra anche poco sole. Le finestre delle celle sono alte circa un me-tro e mezzo con doppia griglia e rete metallica e impediscono alla luce di entrare: in cella c'è un solo neon che non riesce ad illuminarla tutta.
Le docce sono fatiscenti, vecchie, senza aspiratori e sporche! I pentoloni dove si porta il vitto non possono essere inseriti negli scaldavivande perché qui ci sono ancora le scale e non ci sono montacarichi per portare i carrelli come nelle carceri più moderne. I colloqui sono an-cora col bancone, che impedisce di abbracciare una persona, quando ormai in tutti i carceri sono stati messi dei tavolini.
Quindi, rispetto alla riforma del D.P.R. 230 del Giugno 2000, qui non si è vista ancora nes-suna miglioria, anzi è stata anche chiusa la lavanderia. Quindi, dopo aver tolto un posto di la-voro, non si sa più come lavorare.
Le lenzuola vengono date ad un'impresa esterna, per fortuna!
Una cosa che funziona è la cosiddetta "domandina", cioè il poter acquistare dei beni al di fuori del carcere: solo che 1 kg. di peperoni costa 5 euro, 1 kg. di pomodori altri 5 euro!
Che prezzi! Qui ci fanno l'estorsione!
Devo dire anche che il blindo è sempre chiuso e ti par di essere in un frigorifero! Io sono stato a (.), (.), (.), (.) e questo carcere, insieme a quello di (.) è il peggiore mai visto. Comunque sono cose risapute, potete informarvi voi stessi anche tramite altre persone.
Gianni
***
Mi chiamo A.M., sono nato a (.) il (.). Mio padre è morto di tumore cinque anni fa; mia sorella è sposata e ha due bambini. Io sono quasi sempre vissuto con mia madre, fino a quan-do, la notte del (.) 1999, qualcuno si è introdotto nella nostra casa e l'ha uccisa mentre io dormivo. Ho scoperto il cadavere la mattina seguente. Ho subito chiamato la polizia e l'ospe-dale. Mi hanno incolpato come se mi avessero visto mentre la uccidevo. Mi hanno messo in galera. Poi è venuto un perito psichiatra che ha deciso che sono incapace di intendere e di vo-lere. La verità è che io ero sconvolto per tutto quello che stava succedendo. Il risultato è che da due mesi sono qui all'O.P.G. di (.). Mia sorella e gli altri parenti non vogliono sapere più niente di me.
A.M.
***
Alle ore 15 del (.) si è suicidato nel carcere di (.) un detenuto che era arrivato lì da non molto: stava in una carrozzella, gli avevano tolto anche la televisione, aveva il blindato chiuso 24 ore su 24 e le uniche "visite" che riceveva erano quelle dell'infermiere che gli misurava la pressione. Non si sanno le sue vicende processuali e nemmeno chi scrive lo conosceva di per-sona: non si sanno i motivi, né si sanno mai a fondo i motivi di un suicidio.
Si è fatto la "corda" annodando più calzini, ha legato un'estremità alle sbarre della finestra della cella e l'altra al collo: poi, non potendo utilizzare le gambe, si è fatto scivolare giù dal letto.
Chi mi ha dato oggi la notizia, ancora sconvolto dall'accaduto, ha provato a fargli il massag-gio cardiaco, la respirazione bocca a bocca e intanto si chiamava il medico: il quale ha solo dovuto constatare il decesso avvenuto (aveva 46 anni).
Forse ne parlerà qualche giornale? Ne dubito fortemente: intanto ne parliamo noi.
Fonte: lettera privata del 25/01/2000
***
Sprecone per definizione, lo Stato italiano almeno risparmia su una spesa: il cibo dei dete-nuti.
Nei mesi scorsi l'amministrazione penitenziaria ha "espletato le gare", per dirla in burocrate-se, per le forniture alle carceri, con risultati strabilianti. Come dimostrano alcuni casi.
La ditta Pastore ha vinto l'appalto per Regina Coeli (4 miliardi a base d'asta, ndr: di vecchie lire) con un ribasso del 50,26%.
La ditta Ventura, che negli ultimi 3 anni ha curiosamente un fatturato identico alla ditta Pa-store, si è invece aggiudicata Rebibbia (8,4 miliardi a base d'asta, ndr: di vecchie lire) con un ribasso del 54%.
Sapete cosa significa? Colazione, pranzo e cena di ogni detenuto di Regina Coeli costeranno allo Stato appena 2.733 lire al giorno, contro le 5.515 messe in preventivo (e che già potevano sembrare una cifra irrisoria).
A Rebibbia il risparmio sarà ancora maggiore.
Assicurare, come da regolamento, 2.400 chilocalorie al giorno a ogni carcerato costerà ai cittadini appena 2.533 lire. Un cappuccino al bar.
Sembra incredibile, eppure c'è una spiegazione: l'ha data il ministro della Giustizia Oliviero Diliberto alla Camera (ex ministro, ndr. de "La Grande Promessa", rivista mensile del carce-re di Porto Azzurro - LI). Le ditte che vincono le gare per il vitto ai detenuti si aggiudicano anche il servizio del cosiddetto sopravvitto. Cioè possono vendere liberamente all'interno delle carceri generi alimentari e non, ai prezzi di mercato. Questo giro d'affari vale 300 mi-liardi l'anno, di cui la metà a carico dello Stato, contro i 140 del rancio. Domanda al ministro: non sarà che più il pasto è scadente, più incassa lo spaccio?
Sergio Rizzo, Il Mondo: tratto da "La Grande Promessa", n. 588/589, Maggio-Giugno 2000
***
BENVENUTI A TAVOLA: la risposta di un nostro amico detenuto.
Forse, dico forse, ci sono domande per cui non si avrà mai una risposta.Ma comunque non è ancora proibito interrogarsi sui miracoli che continuano a verificarsi in Italia, inclusa la spiegazione, che invero sembra più una triste ammissione, fornita dal ministro della Giustizia (ex, ndr.), in merito al meccanismo del vitto e sopravvitto nelle carceri italiane, e riportata nell'articolo precedente dal giornalista Sergio Rizzo, a cui vanno i nostri più sentiti ringrazia-menti per l'ammirevole iniziativa, e confidiamo nella sua comprensione se non possiamo co-rollare il nostro apprezzamento con un invito a pranzo nei suoi confronti, siamo certi che non si riterrà del tutto offeso.
Purtroppo, la novità non è affatto assoluta: citando solo gli episodi più recenti che mi ven-gono in mente senza consultare gli archivi di redazione, periodicamente la nostra rivista si of-fre portavoce di questa carenza vittuaria e dell'irrisorio rapporto quantità/qualità elargito, o meglio, elemosinato; ad esempio, con articoli pubblicati sui numeri della Grande Promessa di Marzo, Aprile e Ottobre 1998, del Febbraio 1999 e via via fino adesso, ma anche con perples-sità più autorevoli di quelle dei detenuti stessi, come l'editoriale del Gennaio 1999 scritto dal dottor Domenico Nucci, allora direttore di questo Istituto.e quindi si può facilmente evince-re che non si tratta soltanto di semplici lamentele di parte, ma di uno status quo che purtroppo continua a permanere, e chissà per quanto ancora rimarrà tale. L'unica cosa certa fino adesso è che, in un modo o nell'altro, tutti continuano a mangiare qualcosa che non è la loro.
Siamo sempre meno in Europa, ma in Italia funziona così: c'è chi mangia sui soldi dei con-tribuenti, di quelli dello Stato e di quelli dei detenuti.
Che rimangono gli unici a mangiarsi qualcosa di proprio: sì, il proprio fegato!
Antonio
***
Il (.) Marzo (.) sono uscito dal carcere per incompatibilità col regime carcerario, a causa della mia sieropositività.
Da quella data sino alla fine di Aprile il Magistrato di Sorveglianza mi ha dato gli arresti in ospedale per controllare ed assicurarsi sulle mie condizioni di salute: il (.) Maggio mi arriva la scarcerazione in quanto avevo i CD4 a 89, valori ematologici e di cellule molto bassi, sotto la soglia dei 100 (ndr: soglia in cui, come previsto dalla legge, scatterebbe il "pericolo di vi-ta" o per lo meno una situazione fisica assolutamente incompatibile con la detenzione carce-raria).
Sono rimasto a casa sino al (.) Giugno, giorno in cui il Magistrato ha rispiccato il mandato di cattura nei miei confronti per un definitivo del (ndr: anno), condannato con altri 17 mesi di reclusione. Inoltre, avendo appurato che fisicamente mi ero ripreso e che i CD4 erano risaliti ha deciso di farmi nuovamente "idoneo" al carcere: dovevate vedermi quando sono uscito, pe-savo 43 kg. rispetto ai miei 73 abituali. uno scheletro.
Poi, con gli arresti in ospedale, tra flebo e punture ricostituenti, mi hanno rimesso un po' in sesto. Pronto per ritornare in carcere.
Anonimo
***
Presso il carcere romano di Rebibbia, in data 06/12/99, è deceduta una detenuta per cause che non sono state immediatamente rese note.
La detenuta in questione si chiamava Barbara Medici, aveva 28 anni (originaria di Acilia), era stata condannata a una pena definitiva di anni uno e aveva ottenuto la possibilità di entrare nella Comunità per tossicodipendenti di Anguillara: stava quindi attendendo di lasciare il car-cere.
L'ultima volta che è stata vista viva dai propri familiari, Giovedì 2 Dicembre, stava bene ed era felice e serena per la sua prossima scarcerazione. Invece, il Lunedì successivo è deceduta senza che sia stata divulgata alcuna notizia sulle cause della sua morte e senza aver dato alcun avviso ai familiari fino al giorno dopo.
Barbara è stata portata al Policlinico Umberto I° e pare che sia deceduta lì; all'arrivo dei fa-miliari non risultava registrata da nessuna parte e quindi, grazie all'intervento di un agente che ha consigliato loro di andare a vedere presso l'obitorio, hanno potuto avere notizie di lei.
Ma non è stato concesso loro di vedere il corpo.
Il Sabato successivo è stata effettuata l'autopsia e due giorni dopo, finalmente, dopo una settimana dal decesso, Barbara è stata vista dai familiari. Sulle cause della sua morte dal car-cere ancora non si hanno notizie, la direttrice Lucia Zainaghi era, ed è, tuttora assente, nessun funzionario è disposto a parlare su cosa sia accaduto a Barbara. L'unica cosa certa è che Bar-bara, morta il 6 Dicembre, è arrivata alle ore 15.50 del giorno dopo all'obitorio di medicina legale, provenendo dalla camera mortuaria del Policlinico. Barbara era tossicodipendente e aveva già scontato 3 mesi della pena inflitta, lascia un figlio in tenera età alle cure della so-rella Luciana, che non riesce a darsi pace: "Mia sorella stava bene ed era contenta perché le avevano concesso gli arresti domiciliari e a Natale sarebbe tornata a casa dal suo bambino. Non può essersi suicidata".
I parlamentari Paolo Cento e Angelo Bonelli, presidente della commissione per la lotta alla criminalità e ai problemi carcerari della Regione Lazio, hanno presentato due interrogazioni parlamentari.
"E' necessaria l'immediata apertura di un'inchiesta della magistratura e del Ministro della Giustizia - spiega Cento - la situazione nei penitenziari di Roma è ormai insostenibile e la lista delle morti sospette si allunga ogni giorno."
Anche la morte di Barbara fa parte di una lunga serie di decessi che continuano ad accadere nelle carceri italiane, senza che sia mai stata accertata e dichiarata alcuna responsabilità, senza che nessun provvedimento serio di tipo preventivo sia stato preso. Al di là dell'effettiva ed eventuale responsabilità diretta, nella morte di Barbara e di tanti altri come lei, di qualche agente o operatore di istituto, sicuramente possiamo rilevare che inopinabilmente gli Istituti non sono solleciti a comunicare ai familiari l'accaduto - e questa è una mancanza di rispetto enorme verso la vita umana - né ad intervenire in maniera tempestiva davanti a situazioni che presentano chiaramente segni di pericolo per la vita dei detenuti e degli internati.
Ma non solo, dopo certi fatti si crea una congiura del silenzio che farebbe invidia a qualsiasi organizzazione criminale.
Cosa è successo nelle ore precedenti alla morte di Barbara?
La giovane è arrivata viva o morta al policlinico? E' stata trasportata da un'ambulanza o da una macchina di servizio dell'Istituto?
E da chi? Di che cosa è morta? Perché non è stata avvisata la famiglia?
Non ci resta che augurarci che a questi, e ad altri interrogativi, qualcuno abbia l'accortezza di rispondere e di additare i responsabili dell'accaduto.
Antonio & Santiago, tratto da "La G.P.", ibidem
***
"Che tutti siamo uno" è tanto vero quanto il detto che "A la Madonna de Agosto se rinfresca il bosco".
Questa calda estate sta volgendo al termine e noi detenuti, in un sospiro di 57.000 persone, potremmo dire: "Finalmente si ritorna a respirare in queste celle che il caldo estivo ha tra-sformato in forni a microonde".
Certo, questo non è un problema che si pongono coloro che sono al Governo e che ti capita di vedere nei ciack televisivi in vacanza in Costa Smeralda, o alle Isole Cayman come il lea-der Silvio Berlusconi, o come il ministro di Grazia e Giustizia che per. solidarietà è andato, per così dire, in vacanza alla Gorgona (isola carcere)!
Perché non è venuto qui in vacanza al carcere di (.) dove alle otto di sera le sbarre sono così roventi che ci puoi cucinare quel che vuoi a mò di graticola? E quanti carceri regalano queste sofferenze accessorie a chi, nelle patrie galere, sta espiando la propria pena, tra bronto-lii e rimpianti di un'altra estate persa?
Beh, vi devo salutare perché è giunta l'ora in cui devo spegnere la luce e accendere lo zam-pirone, che come l'aglio tiene lontano i vampiri (esistono, eccome se esistono, vedi alla voce "tasse"): tiene lontano le zanzare che qui sembrano state addestrate alla scuola degli Agenti di Polizia Penitenziaria, col preciso intento di tormentarci oltre che nell'animo, come già fa la privazione della libertà, anche nella carne.
Mariano
***
PENSIERI DI UN DETENUTO
ALLA SUA ANIMA
Cara la mia anima,
tu mi conosci bene.
Insieme siamo cresciuti,
abbiamo sofferto e riso insieme,
siamo stati felici,
abbiamo pianto di gioia e di dolore:
oggi abbiamo sperato
che fosse un giorno felice.
Invece è sempre
la solita routine.
Michele
***
E' doveroso che si sappiano anche queste "notizie".
Più che altro emerite VERGOGNE del sistema giudiziario italiano!
1. Kostantin Bocaj, Vito Nicola, Sicilia: arrestati con l'accusa di reati odiosi come la riduzione in schiavitù di un ragazzino di 12 anni, più tutti i reati collegati, sono stati riconosciuti inno-centi dal Gip di Brindisi Luigi Forleo. Secondo l'accusa, il bambino sarebbe stato strappato dalle braccia della madre in Albania, poi condotto in traghetto da un uomo e una donna che l'avrebbero venduto ai due accusati che lo usavano come schiavo per guardare le loro greggi. Come sempre i mass media si sono buttati sulla notizia come avvoltoi e i due tapini sono fini-ti, come mostri, sulle prime pagine. Non imparano mai la lezione e sarebbe il caso che chi su-bisce queste ingiustizie chieda i danni ai "pennivendoli" responsabili.
Fonte: Studio Aperto, 08/11/99
2. Mario Ignazio Lai: era stato arrestato per rapina e condannato a tre anni di carcere, ma la Corte di Appello di Cagliari lo ha riconosciuto innocente. In realtà si trattava di uno scippo tramutato in rapina. La povera donna lo aveva riconosciuto nelle foto segnaletiche e ne indi-cava l'età tra i 20 e 30 anni. Il Lai ne aveva 46. Per gli inquirenti era sufficiente per arrestarlo.
Fonte: L'unione Sarda, 10/11/99
3. Domenico Barba, Giulio Velluto: arrestati per l'omicidio del bigliettaio della stazione di Boscotrecase sono stati riconosciuti innocenti per "sopraggiunta insussistenza degli indizi". Il colpevole si sarebbe costituito e avrebbe successivamente fatto i nomi dei presunti complici. La domanda sorge spontanea, diceva qualcuno tempo fa: "E se il colpevole non si faceva avanti, quanta galera si dovevano fare da innocenti il Barba e il Velluto? Magari l'ergastolo?".
Fonte: Avvenire, 04/11/99
4. Antonio Fava: arrestato per traffico di droga, ha passato 98 giorni in carcere prima di venire assolto con formula piena. Naturalmente, come tanti altri ha perso il lavoro, gli amici, insom-ma i soliti disastri che nessuna giustizia potrà mai ripagare.
Fonte: RAI 2, "Racconti di vita", 06/11/99
5. Mario Frittita: frate della Kalsa, quartiere di Palermo, che venne arrestato e in manette tra-scinato alla gogna mediatica per favoreggiamento aggravato del latitante Pietro Aglieri, accu-sato dagli inquirenti di essere un mafioso. Il prete si professò innocente, nonostante l'ammis-sione di aver frequentato l'Aglieri su richiesta di quest'ultimo e di averlo fatto nell'ambito della sua professione di sacerdote pronto a rispondere al richiamo di uomini in cerca di con-versione e perdono (un buon prete dovrebbe farlo comunque anche senza essere sollecitato dall'interessato). La Chiesa di Palermo, i padri Carmelitani e tutto il quartiere hanno gioito e fatto festa per l'assoluzione. Noi della redazione ci associamo a tutti loro.
Fonte: Il Giornale, 06/11/99
6. Roberto Mazzotta: arrestato nell'inchiesta "Mani Pulite", fu portato a San Vittore, tenuto in isolamento senza neppure essere interrogato. Uscì dal carcere senza neppure conoscere il reato contestatogli. A distanza di anni è arrivata la sentenza che lo riconosce innocente.
Fonte: Il Giornale, 10/11/99
7. Mario Castellano: arrestato e discreditato; otterrà 10 milioni (ndr: di vecchie lire) di risar-cimento dopo essere stato riconosciuto innocente. Carriera bloccata e famiglia rovinata.
Fonte: Il Giornale 10/11/99
8. Un cittadino di origine croata: era stato arrestato per l'omicidio del parroco di Vernazza, don Emilio Gandolfo. Sottoposto a "pressanti interrogatori" e tutte le altre amenità che in ge-nere i "giornalisti-giornalai" adoperano per coprire ben altri metodi. Ma, nonostante le caratte-ristiche lombrosiane attribuitegli dagli inquirenti che ancora caratterizzano gran parte delle indagini, il croato brutto, sporco e cattivo è stato scarcerato in quanto innocente.
Fonte: Il Corriere della Sera, 07/12/99
9. Abusi sessuali: una intera famiglia accusata e in parte arrestata per ripetute violenze carnali su una loro figlia tredicenne e su una sua cuginetta. Nel processo di primo grado era stato condannato il padre L.S., a 13 anni di carcere e con lui altri quattro familiari a pene varie. Un padre, una madre, due fratelli e un cugino, sbattuti in carcere e diffamati socialmente. Dipinti come mostri dai soliti mass media e alla fine del processo di secondo grado, davanti alla Corte d'Appello di Milano sono stati assolti "perchè il fatto non sussiste". L'avvocato Guido Bompa-rola, legale della famiglia, ha denunciato il p.m. Pietro Forno alla procura di Brescia. A Mila-no, il p.m. in questione quasi sempre titolare delle inchieste sulle violenze carnali ha, al suo passivo, numerosi casi di persone che dopo essere state da lui inquisite sono poi risultate in-nocenti.
Fonte: Il Corriere della Sera, 11/12/99
10. Sonia Franceschi: accusata insieme al fidanzato dell'omicidio dei nonni di lui, la ragazza ha passato 17 giorni in carcere con questa grave accusa. Fortunatamente per lei numerosi ra-gazzi fin dall'inizio delle indagini, hanno testimoniato la sua presenza, al momento dell'omici-dio, in una sala giochi, dove la ragazza aveva lasciato una traccia del suo passaggio, essendo titolare di un alto punteggio a uno di questi videogiochi. E poi dicono che il computer fa male.
Fonte: TG 4, 15/12/99
(a cura di Antonio, La "Grande Promessa", ibidem)
***